Caregiver dei malati di Alzheimer: consigli e testimonianze
Empatia, positività e contatto fisico possono dare un aiuto importante
Una persona che soffre di Alzheimer fatica a ricordare nozioni semplici, non riesce a pensare con lucidità ed è spesso oggetto di sbalzi d’umore.
I familiari e gli operatori sanitari che se ne prendono cura si trovano di fronte ad una sfida complessa: la gestione della malattia porta infatti con sé un forte carico emotivo, fatto di stanchezza e sensazione di impotenza.
Rappresentando la causa più comune di demenza tra gli over 65 nei Paesi occidentali, l’Alzheimer colpisce circa il 5% della popolazione in età senile.
Le prime manifestazioni, che appaiono generalmente in modo graduale, comprendono:
- sintomi cognitivi (difficoltà per quanto riguarda la memoria e il linguaggio, disorientamento);
- sintomi funzionali (incapacità nello svolgere semplici azioni quotidiane);
- sintomi comportamentali (ansia, depressione, nervosismo).
Con il trascorrere del tempo la situazione tende ad aggravarsi: il decorso della patologia è piuttosto lungo e la sua durata media è pari a circa 8-10 anni.
Di pari passo, risulta quindi necessaria un’assistenza sempre più attenta e continua da parte dei familiari e del personale sanitario specializzato.
Ogni caso è a sé, tuttavia è possibile distinguere i diversi momenti dello sviluppo della malattia: conoscere gli stadi della patologia permette ai caregiver familiari di avere una maggiore consapevolezza della problematica e di pianificare adeguatamente le attività di cura.
Le quattro fasi dell’Alzheimer
1° fase dell’Alzheimer
Il primo step viene indicato come Alzheimer lieve: chi si trova in questo stadio tende ad avere qualche disturbo di memoria e comincia ad avere difficoltà nell’imparare nuovi concetti o procedure.
Compaiono problematiche legate alla produzione delle frasi e si fa fatica a trovare la parola giusta mentre si sta parlando.
2° fase dell’Alzheimer
La seconda fase è quella dell’Alzheimer moderato e porta con sé un aggravamento dei sintomi. Si comincia a dimenticare il nome dei familiari e a trascurare il proprio aspetto e l’igiene personale. Si fanno inoltre più frequenti i cambiamenti d’umore.
3° fase dell’Alzheimer
Il terzo step è definito Alzheimer grave: la persona malata diventa totalmente dipendente e necessita di un’assistenza costante.
Le difficoltà cognitive risultano evidenti: il soggetto non riconosce più i propri parenti, non riesce a comunicare verbalmente e il movimento è sempre più compromesso.
Anche le semplici azioni, come mangiare e vestirsi, risultano impossibili da effettuare in autonomia.
4° fase dell’Alzheimer
L’aggravarsi delle condizioni conduce infine all’Alzheimer terminale: la persona ha bisogno di attenzioni continue ed è in genere incontinente.
Problematiche legate alla deglutizione rendono spesso necessaria l’introduzione dell’alimentazione parenterale, ossia la somministrazione endovenosa dei nutrienti.
I consigli per i caregiver in caso di Alzheimer
Quando la patologia entra in uno stadio di sviluppo avanzato i caregiver si trovano spesso a dover riorganizzare i propri impegni sulla base delle necessità del malato.
Mantenere un canale aperto con il proprio medico o la struttura clinica di riferimento è il primo passo per ottenere un riscontro puntuale e un supporto professionale nella gestione delle problematiche che l’assistenza porta con sé. Visto il loro difficile compito, i caregiver necessitano essi stessi di aiuto e conforto.
Come rispondere, quindi, ai bisogni di un malato di Alzheimer? Innanzitutto meglio favorire uno stato d’animo positivo. È importante infatti parlare con la persona affetta da questa patologia utilizzando un tono di voce calmo e pacato, privilegiando le espressioni facciali per instaurare un legame ancora più diretto.
Vanno poi limitate le distrazioni: andrebbe quindi spenta la radio o la televisione e ci si dovrebbe porre alla stessa altezza della persona a cui si sta prestando assistenza. Prima di parlare, inoltre, si consiglia di chiamare il soggetto per nome e di identificare se stessi, specificando il proprio grado di relazione.
Si dovrebbe poi prestare attenzione al modo in cui si formula una domanda, privilegiando le “yes-no question” (con risposta sì/no), cercando di essere pazienti mentre si attende una reazione.
Si può ascoltare l’altro anche con gli occhi: spesso infatti i segnali non verbali e il linguaggio del corpo possono risultare molto eloquenti.
Capita di frequente che chi soffre di Alzheimer sia in uno stato di ansia e confusione. Quando, ad esempio, il soggetto racconta un fatto che non è mai accaduto, non serve cercare di convincerlo del contrario: in questi casi un abbraccio o una carezza sono la risposta più efficace.
La relazione risulta poi più complicata se la persona malata si agita o si arrabbia. In queste situazioni mantenere la calma non è facile: può essere d’aiuto provare ad uscire per una passeggiata o cercare di stabilire, in modo empatico, una nuova connessione.
Adottare un atteggiamento amorevole, calmo e paziente rappresenta quindi la strada migliore per prendersi cura delle persone affette da questa patologia. Occorre donare attenzioni e cure costanti: nel caso in cui non si riuscisse a rispondere in modo efficace alle loro necessità, si consiglia di fare affidamento a figure specializzate.
La testimonianza di Claudia Martucci, caregiver del padre malato di Alzheimer
Abbiamo chiesto a Claudia Martucci, che si è occupata del padre malato di Alzheimer fino alla sua morte, di raccontarci la sua esperienza come caregiver.
Qual è l’impatto che la diagnosi di Alzheimer ha sulle dinamiche familiari?
Certamente l’impatto è difficilissimo e traumatico. Nel momento in cui ricevi la diagnosi la sensazione che prevale è la paura. Ma al tempo stesso, sei cosciente che non puoi perdere tempo a crogiolarti nella disperazione. Ogni componente della famiglia ha il suo modo di elaborare e affrontare la situazione. Ma alla fine ciò che fà la differenza è la capacità di restare uniti nel percorso.
I pensieri che ti assalgono sono tanti. Ti chiedi perché di tante malattie potenzialmente curabili, devi affrontare proprio questa: una neurodegenerativa, tra le più brutte del suo genere, per la quale ancora non esiste cura.
Qual è stata la sua reazione alla diagnosi come figlia di un malato? Quali sono state le sue emozioni?
Nel momento in cui parlai in famiglia con mia madre e mia sorella, per trovare il modo di convincere mio padre a recarsi dal neurologo, io dentro di me ero già certa di ciò che sarebbe stata la diagnosi.
Erano settimane che, vedendo mio padre più assente del previsto e notando le sue difficoltà di concentrazione e di memoria, mi dedicavo a cercare online informazioni che mi potessero aiutare a capire di più. E ahimè, presto fu tutto molto chiaro.
La visita che fece confermò tutti i miei sospetti. La diagnosi arrivò dopo quindici giorni di ricovero. Fu una doccia ghiacciata.
Sebbene io ne fossi cosciente, non ero pronta ad accettare la situazione.
Consapevolezza ed accettazione sono due cose che non vanno sempre di pari in passo.
Ero distrutta, perché sapevo che quel mostro chiamato Alzheimer mi avrebbe tolto un po’ per volta la persona più importante della mia vita.
Poi nell’impotenza generale della situazione, ho compreso quanto fosse importante potermi godere ogni momento della nostra vita insieme, e quanto fosse rilevante il nostro ruolo come familiari. Dovevamo garantirgli la qualità della vita e la giusta dignità.
Come ha gestito il suo ruolo di caregiver? Che tipo di incombenze ha dovuto affrontare a livello pratico e quali sono state le sfide a livello emotivo?
In qualità di caregiver ho cercato di essere presente il più possibile e di supportare mia mamma nella gestione della situazione, che era complessa sotto tutti i punti di vista, anche quello economico.
Data la sua giovane età mio papà dovette andare in prepensionamento e questo comportò, a livello pratico, una serie di passaggi burocratici per garantirgli un’uscita dignitosa dall’azienda, per la quale da trent’anni prestava servizio. La tutela dei suoi diritti divenne una delle priorità.
Vederlo distaccato e apatico durante questo passaggio è stato logorante. Un uomo appassionato del suo lavoro, che nel suo percorso era riuscito a raggiungere con soddisfazione importanti traguardi personali, era ora avulso da ogni dinamica.
Cosa dovrebbe fare lo Stato per aiutare i malati e le famiglie?
Lo Stato dovrebbe capire che siamo in piena emergenza socio-assistenziale. Occorre incrementare le strutture dedicate e specializzate nella gestione del paziente affetto da demenza.
Bisogna aumentare il numero dei centri diurni: sono un valido aiuto per i familiari che così possono essere un po’ supportati e, al tempo stesso, sono utili per i pazienti che possono svolgere le attività di stimolazione cognitiva, finalizzate al rallentamento del decadimento cognitivo.
Servirebbe inoltre aiutare le famiglie anche a livello economico, riconoscendo a tutti gli effetti il ruolo del “caregiver” che sacrifica la sua vita, e spesso anche il suo lavoro, per dedicarsi al proprio caro.
Inoltre, sarebbe utile potenziare i servizi socio assistenziali e snellire le procedure burocratiche nelle richieste dei servizi, come ad esempio, l’ assistenza domiciliare diretta. Di fatto, sono veramente molte le cose che lo Stato potrebbe fare per aiutare le famiglie, che quotidianamente combattono una lotta contro il tempo, cercando di garantire al loro caro la giusta assistenza.