Il punto sui diritti delle donne madri detenute in Italia

Una situazione complessa e poco dibattuta

La situazione delle donne detenute in Italia

In Italia esistono solamente quattro carceri femminili (Trani, Roma, Venezia e Pozzuoli). Al 31 gennaio 2021, erano 2.250 le donne presenti nei nostri istituti penitenziari. Nella ricerca di Rapporto Antigone emerge come solamente 549 di queste si trovavano in custodia presso uno dei quattro istituti, mentre le altre erano distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili in tutto il territorio nazionale.

La situazione in queste strutture è tutt’altro che facile. Le donne che lavorano all’esterno, una possibilità prevista dall’art. 21 dell’ordinamento penitenziario, sono pochissime: le verifiche di Rapporto Antigone hanno portato alla luce numeri preoccupanti. Lavorano infatti una donna su 67 a Bologna, una su 57 a Verona, una su 42 a Perugia. Due su 80 a Lecce, due su 30 a Taranto, due su 29 a Reggio Calabria e due su 24 a Castrovillari (Cosenza).

Inoltre, solamente il 63% delle celle riservate alle detenute è dotato di bidet e di un servizio di ginecologia. Nell’ultimo anno, si sono poi registrati 51 episodi di autolesionismo solo a Rebibbia. Quanto all’accesso alla detenzione domiciliare per l’ultimo periodo di pena, ne hanno usufruito 2.084 detenute donne.

Madri detenute: le criticità

Madri detenute: cosa dice la legge

In questo contesto, uno degli aspetti più delicati è sicuramente quello relativo alle madri detenute. Il Codice di Procedura Penale contiene le norme in merito ai provvedimenti da prendere nei confronti delle donne incinte o delle madri con figli piccoli: la custodia in carcere è da considerare solamente come ultima opzione, da applicarsi quando nessuna misura alternativa può soddisfare le esigenze cautelari.

Inoltre, il legislatore ha considerato che, anche qualora fosse l’unico rimedio percorribile, la custodia in carcere possa non essere disposta verso soggetti specifici, ossia quando la donna è incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente. La permanenza in un istituto penitenziario dovrebbe essere applicata solamente in pochissimi casi, perché la tutela del rapporto madre-figlio ha il sopravvento sul resto e richiede un’attenzione, e di conseguenza una disciplina, particolare.

A tal proposito, l’ordinamento penitenziario prevede, dal 2006, l’istituzione dei cosiddetti Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri). Si tratta di strutture più “leggere”, che permettono alle donne che non possono beneficiare di alternative alla detenzione in carcere di tenere comunque con sé i propri figli. Non ci sono celle, gli agenti sono in borghese, i corridoi sono colorati anche se non si può uscire. Alle finestre ci sono le sbarre, ma l’aspetto è più adatto all’occhio di un bambino.

Ordinamento penitenziario e madri detenute: come si è evoluta la legislazione

La storia dell’ordinamento penitenziario in relazione alle donne

Ma come è cambiata la condizione delle detenute nel nostro Paese? Secondo quanto ricostruito in un articolo di Antonio Salvati pubblicato sulla rivista “Amministrazione in cammino”, negli anni Settanta si è assistito a una modernizzazione dell’ordinamento penitenziario in relazione alle donne: fino ad allora il carcere femminile era dedicato al recupero di soggetti traviati e immorali, provenienti soprattutto dai ceti più bassi, e vedeva una gestione in parte affidata alle suore. Quasi cinquant’anni fa la svolta, con la riforma penitenziaria del 1975, centrata sul riconoscimento dei bisogni delle persone e sul loro reinserimento nella società. Le detenute cominciarono così ad essere seguite da figure specializzate, come educatori e assistenti sociali.

Inoltre, nell’articolo 11, comma 9, si è prestata più attenzione alla situazione delle mamme: grazie a questa misura, le madri poterono tenere con sé, all’interno dell’istituto, i figli di età inferiore ai tre anni. Previsti, poi, alcuni specialisti con l’obiettivo di tutelare l’equilibrio psicofisico dei minori.

La legge n. 663 del 1986 si focalizzò soprattutto sugli spazi all’esterno della struttura carceraria, promuovendo il lavoro e i permessi premio, ed è stata alla base dei provvedimenti emanati negli anni successivi fino al D.P.R. del 30 giugno 2000, n.230, “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”.

Più recentemente, la legge Finocchiaro n. 40 del 2001 ha spinto sulla “decarcerazione” di alcune categorie di persone, come le mamme detenute, proteggendo sia i genitori che i propri figli, altrimenti “condannati” in carcere senza alcuna colpa.

Si tratta della detenzione domiciliare speciale per le madri – una pena da espiare nella propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora – che si applica anche alle persone che hanno commesso reati gravi. La concessione di questa misura deve essere valutata a seconda dei casi. Il bambino, inoltre, deve avere un’età inferiore ai dieci anni.

Nel 2011 è stata inoltre approvata una nuova legge che consente, salvo casi eccezionali legati a reati gravi, la possibilità di scontare la pena in una casa famiglia. In questo caso la struttura che ospita le donne è una casa vera e propria, in cui le detenute hanno il permesso di portare a scuola i figli e assisterli in ospedale, se necessario. Queste strutture possono ospitare al massimo sei nuclei familiari e devono rispettare determinati requisiti: servono spazi personali, servizi e luoghi per giocare.

Nell’ultima legge di bilancio sono stati stanziati 4,5 milioni di euro per le case famiglia protette, nella speranza che questa soluzione alternativa venga esplorata con più continuità, per dare dignità a quelle donne e madri che hanno commesso reati minori e che, insieme ai loro bambini, meritano di avere una chance diversa rispetto al carcere.