L’Ad di GBR Rossetto Spa:
“Essere una donna imprenditrice? Significa fare scelte ogni giorno”
“Sono una donna imprenditrice in un’azienda che mi piace definire femminile: io sono un amministratore delegato e mia madre, che insieme a mio padre ha fondato questa realtà, ricopre ora il ruolo di presidente. Ai vertici c’è mio fratello, AD e direttore generale. Ma, a conti fatti, le quote rosa sono in maggioranza”. Lo racconta con un sorriso Elisabetta Rossetto, nel CdA di GBR Rossetto Spa, leader in Italia nella fornitura integrata di soluzioni per l’ufficio e per il lavoro. L’impresa di Rubano, in provincia di Padova, fondata nel 1958 dai suoi genitori, ha saputo conquistarsi nel corso degli anni, anche grazie ad importanti intuizioni commerciali che l’hanno resa riconoscibile nel mercato di riferimento, un ruolo di primo piano come partner professionale per clienti alla ricerca di servizi efficienti, prodotti di qualità e attenzione al dettaglio. Un successo che, per Elisabetta Rossetto, dipende anche da una condivisa sensibilità “al femminile”.
Lei ricopre un ruolo di primo piano in azienda: cosa significa essere una donna imprenditrice nel 2020?
Intanto c’è da dire che il mio percorso è particolare. Sono entrata in azienda dal 1996, con un diploma commerciale e subito dopo la laurea in materie umanistiche, quindi di fatto sono nata e cresciuta professionalmente in questa realtà, che ha nell’impostazione famigliare uno dei suoi punti di forza. È importante dirlo perché nel mio lavoro quotidiano continuo a portare avanti quei valori in cui credo e che hanno contraddistinto l’azienda a cominciare dall’operato dei miei genitori. E per questo dico che per me, essere una donna imprenditrice in questo momento storico, significa conciliare due anime: quella più strettamente economica, che prevede di portare l’azienda verso risultati certi, di creare valore, anticipando le necessità dei nostri clienti; e quella incentrata sulla responsabilità sociale, intesa nel senso più ampio del termine: una responsabilità che coinvolge i dipendenti, ma anche la comunità virtuale con cui ci si relaziona. Si tratta, di fatto, di farsi continuamente delle domande, di fare delle scelte.
Ci può fare un esempio?
Uno recentissimo: con l’emergenza Coronavirus abbiamo iniziato a commercializzare ingenti quantità di dispositivi di protezione individuale. Tante le domande che ci siamo posti: a che prezzo venderle? Quali classi di clienti favorire? Quali situazioni possiamo agevolare? Insomma, si va ben al di là dei semplici numeri che solitamente si pensa siano l’unico pensiero di un’azienda. E questo è un approccio che cerchiamo di applicare in ogni campo: dalla sensibilità ambientale agli investimenti sulle risorse umane. Tanto che stiamo lavorando per ottenere un rating certificato di responsabilità sociale d’impresa, per valorizzare questo percorso virtuoso.
Per molte donne imprenditrici (ma anche per tantissime donne più in generale) è ancora molto difficile conciliare l’aspetto lavorativo con quello familiare. Cosa pensa al riguardo?
Che conosco molto bene questa situazione. Ho due figli: uno è nato nel 2006 e dopo quattro mesi di maternità sono dovuta tornare in azienda da un giorno all’altro perché la persona che all’epoca mi sostituiva ha deciso di cambiare lavoro. Una situazione che si è ripresentata nel 2008, un periodo già di per sé complicato per via della crisi economica: mia figlia aveva solo un mese e mezzo quando sono tornata in ufficio perché il mio braccio destro è entrata a sua volta in maternità. Per una donna si tratta di una situazione molto complicata e pesante, sia dal punto di vista fisico che psicologico. E che in determinati momenti – tra cui questo, nel pieno dell’emergenza Coronavirus – si amplifica. La nostra azienda sta operando in smart working: per me significa stare anche dieci ore chiusa in una stanza a lavorare, mentre magari mia figlia piange e chiede attenzione. Ma non sono l’unica, ho la certezza che tantissime donne vivano questa situazione: basta collegarmi in chat o skype con le mie collaboratrici per realizzare che tutte lavorano così, divise tra i figli e la responsabilità di sapere che in quel momento l’azienda conta su di te.
Quale pensa potrebbero essere delle soluzioni?
Difficile a dirsi. Forse ci stiamo accorgendo che lo smart working non è risolutivo al cento per cento, se non accompagnato da altre misure a sostegno della donna. Molti dicono che conta la qualità del tempo che si dedica ad una cosa, ma io credo che in campo professionale anche la disponibilità di tempo faccia la differenza. In ogni caso, anche da questa emergenza si potranno trovare occasioni di crescita…
In che modo?
Be’, intanto molti uomini in questo momento si trovano a vivere in prima persona, chiusi in casa, la realtà che per molte donne è da tempo una consuetudine: spero che ne nasca una maggiore comprensione reciproca e la convinzione che alcune richieste del mondo femminile sono fondate. Per quanto riguarda il lavoro da casa, invece, a causa dell’emergenza abbiamo fatto un salto esperienziale che, in situazioni normali, avremmo impiegato anni a fare. Abbiamo rotto quello che in Italia sembrava ancora un tabù e sarà interessante vedere come si evolverà il mondo del lavoro una volta tornati a regime: a mio parere si andrà verso un’integrazione tra l’occupazione come l’abbiamo conosciuta fino ad ora e lo smart working.
Una situazione che secondo lei aprirà a nuove possibilità?
Certo. Da donna prima e da imprenditrice poi ho imparato che tutti i traumi personali e aziendali portano alla presa di coscienza che le cose possono essere fatte in maniera diversa e, perché no, anche migliore. Di fronte ad ogni crisi è importante fare il grande salto, poi si terrà quel che funziona.
In attesa di vedere come evolverà la situazione, quale pensa siano i valori, le idee e le visioni che ha portato all’interno dell’azienda e di cui è maggiormente orgogliosa?
Oltre ad una solida finanza, la gestione manageriale delle risorse umane, la valutazione oggettiva dei punti di forza dei collaboratori e dei loro piani di crescita. E poi lo sviluppo della Rossetto Academy, il progetto studiato per sviluppare le competenze tecniche e comportamentali delle risorse aziendali e diffondere la conoscenza e la cultura di impresa. Il tutto puntando sullo scambio di conoscenze e lo sviluppo di idee non solo in senso gerarchico, ma anche “bottom-up”. Si sono aperte frontiere inimmaginabili fino a qualche anno fa: l’Academy ha avvicinato persone diversissime, si sono creati contatti professionali e umani che hanno favorito il miglioramento aziendale e lo scambio di esperienze.
Infine, quali consigli darebbe alle donne che vogliono realizzarsi in ambito lavorativo?
Di non sentirsi in debito costante con loro stesse, perché ci sono altre responsabilità nel quotidiano che vanno al di là del lavoro. Forse il nostro problema è proprio questo: che non ci sentiamo mai al cento per cento mamme, al cento per cento imprenditrici, al cento per cento operative… Meglio, invece, vivere tutte le esperienze che facciamo come un arricchimento, una possibilità di migliorarci anche sul lavoro, di allargare lo sguardo, di avere una visione più aperta e più ricca. E poi di richiedere quello che è giusto, anche a livello di retribuzione. A volte credo che tante donne si autocensurino, che questo non sentirsi focalizzate in maniera totale sul lavoro le intimidisca. Ma se si è consapevoli del valore del proprio apporto, non c’è niente di male a richiedere quello che è il giusto compenso.