Essere genitori di un figlio disabile: un’esperienza unica e complessa
Mamme e papà speciali, che imparano il valore della resilienza
Essere genitori di un figlio disabile è un’avventura speciale e complessa al tempo stesso. All’interno di un nucleo familiare il delicato bilanciamento di ruoli, pulsioni ed emozioni è un traguardo complicato da raggiungere, a maggior ragione in presenza di bambini con difficoltà. Si tratta di una prova forte, che mette in gioco l’identità di ogni componente, da mamma e papà fino ai fratelli.
Il ruolo della famiglia nella disabilità è, di fatto, centrale. Spesso all’inizio i genitori si trovano sprovvisti degli strumenti adeguati per affrontare questa situazione. È per questo indispensabile compiere un percorso ad hoc – magari insieme ad associazioni o ad altre persone che condividono la stessa esperienza – per diventare resilienti e imparare a superare le difficoltà.
Famiglie con figli disabili: oltre i primi timori
Quando i genitori apprendono che loro figlio è disabile, la prima reazione è di smarrimento e paura.
Avere un bambino con bisogni speciali significa infatti assumersi un carico di responsabilità all’apparenza immenso.
Inoltre spesso occorre mettere da parte i sensi di colpa: talvolta la mamma si chiede se durante la gravidanza ha fatto tutto il necessario per assicurare la salute di suo figlio. La ricerca della causa della disabilità può diventare una vera ossessione, ma si tratta di un comportamento inutile e dannoso.
Infine, ci sono i timori per il futuro del bambino, in un contesto sociale non ancora del tutto aperto a queste problematiche.
Disperazione, rabbia, paura, ansia: sono tutte sensazioni comprensibili, alle quali però occorre reagire con calma e fermezza. Dopo le prime emozioni dettate dall’angoscia, padre e madre devono affrontare la realtà. In questi momenti è fondamentale ricevere il supporto di familiari e amici e valutare sostegni professionali, ad esempio scegliendo di andare dallo psicologo o affidandosi alla psicoterapia.
Essere genitori di un figlio disabile: le criticità
Gestire un figlio disabile non è semplice. Le cose si complicano ulteriormente se la coppia di genitori abita lontano dalla propria famiglia di origine e non può dunque appoggiarsi alla rete di aiuti familiare.
Quando, infatti, mamma e papà sono i soli a dover affrontare le difficoltà fisiche o mentali del loro bambino, lo stress e la stanchezza possono prendere il sopravvento.
Possono nascere sensazioni di insicurezza e di incapacità nell’ individuare la strada migliore da percorrere per trovare sollievo e soluzioni.
Si può arrivare anche a chiudersi in se stessi, creando un equilibrio del tutto precario, pensando di essere gli unici a conoscere e comprendere la situazione in cui si trova il bambino. È una reazione naturale, ma occorre farsi forza e contrastarla, perché può essere dannosa per il proprio figlio e per il benessere di tutta la famiglia.
Bisogna mettere da parte la tentazione di nascondere i problemi e, al contrario, aprirsi e parlare.
Come affrontare la disabilità di un figlio?
Il compito di ogni genitore è quello di rendere il proprio figlio il più indipendente e autonomo possibile, in modo che sia in grado di rapportarsi con gli altri.
Per affrontare questa situazione è allora fondamentale combattere l’isolamento, tenendo presente che i bambini disabili, anche se richiedono maggiori attenzioni, non vanno considerati come se fossero di cristallo: vanno colte tutte le possibilità e le abilità che racchiudono dentro di loro.
Avere qualcuno vicino è importante: occorre creare una rete sociale di aiuto e rivolgersi a parenti ed amici senza timori o pregiudizi.
Inoltre, si può chiedere aiuto alle associazioni che si occupano di famiglie e disabilità, dove è possibile ascoltare le testimonianze di altri genitori con figli disabili e dove condividere il percorso di crescita insieme ad altre persone nella stessa situazione.
La testimonianza di Elena Pasquali, madre e caregiver di un ragazzo con disabilità cognitiva, che fa parte del collettivo nazionale Caregiver Familiari COMMA 255.
Quale impatto ha una diagnosi di disabilità sulle dinamiche di una famiglia?
Certo quando sono diventata madre non potevo immaginare cosa mi stesse riservando il futuro. L’impatto con la disabilità è stato molto importante. Ha influito, e in modo drastico, su tutta la famiglia.
Tanto per cominciare: per poter seguire mio figlio, ho dovuto lasciare il lavoro. Ero responsabile amministrativa di un’azienda con più sedi in Italia, ma ho dovuto capitolare. O io o mio marito: uno dei due doveva rinunciare alla propria aspettativa e carriera lavorativa per occuparsi di nostro figlio.
Ma fare la casalinga non era tra i miei desideri e neanche oggi, che non lavoro e mi occupo di mio figlio a tempo pieno, posso definirmi tale. Sono un caregiver familiare, che è qualcosa di molto più complesso e di diverso dall’essere casalinga.
In ogni caso già sapevo che seguire tutta la fase diagnostica, tutte le terapie, con i tempi dilatati che questo comporta, non mi avrebbe permesso di continuare a lavorare. E lo sapevo perché, avendo mio figlio una sindrome conosciuta, i professionisti nella fase diagnostica e di primo intervento mi avevano disegnato il quadro di quanto mi aspettava.
Così da una famiglia con due redditi siamo passati ad uno. Quello di mio marito. E sono tra le persone “fortunate”. Di solito, e lo dico con estrema certezza, la disabilità in casa porta tante e tali frustrazioni, paure, dissensi interni, che nella maggioranza dei casi la coppia scoppia.
Ho tante amiche caregiver familiari che sono rimaste sole, senza poter lavorare e nelle situazioni più aberranti. Loro devono sopravvivere con quanto erogato alla persona con disabilità.
Noi, in casa, abbiamo dovuto fare i conti, letteralmente, con minori entrate. E mi creda, non è stato facile, né lo è tutt’ora.
Cosa significa gestire la quotidianità per una caregiver come lei? Quali sono le sfide emotive e pratiche che deve affrontare?
La questione che mi ha più umiliato e continua ad umiliarmi, è dipendere economicamente da mio marito. Per qualsiasi cosa. Non è una questione di orgoglio. È una questione di dignità. Quella dignità che sembra, però, non interessare nessuno.
Inutile dire che quando c’è una disabilità in casa, cioè nel nucleo familiare convivente, c’è una sola persona che si dedica appieno al sostegno alla persona con disabilità. La convivenza non è un’opzione.
Io non chiudo mai la porta, né di giorno né di notte. H 24, 365 giorni l’anno. Quando c’è una disabilità intellettivo-relazionale, cognitiva o complessa, come nel mio caso, si diventa gli organizzatori della vita dell’altro, i mediatori, i decisori, gli interpreti dei desideri o delle frustrazioni che agli occhi di qualsiasi altro non sono intelligibili.
Vivo una vita in due, anzi siamo due in una vita.
A cosa ha dovuto rinunciare per svolgere la sua attività di caregiver?
Del lavoro ho già detto. Il mio diventare madre è stata una scelta volontaria, ma essere madre di un figlio con disabilità non è stata una scelta, figuriamoci se volontaria. Ed allo stesso modo non può considerarsi tale il mio essere caregiver familiare. E non può considerarsi neanche gratuita. Non solo perché Io l’ho pagata cara e continuo a pagarla.
Sia per i motivi economici di cui ho già detto, sia in termini prettamente individuali di rinuncia ai miei diritti soggettivi.
Mio figlio è una persona con disabilità, non io. Il mio rapporto con lo Stato con i Servizi è esattamente lo stesso di tutti i cittadini italiani. Il mio rapporto con la disabilità si concretizza in mio figlio, che avendo una disabilità cognitiva e intellettivo relazionale ha in me il suo ausilio e la tutela che necessita per avere le stesse opportunità di vita degli altri cittadini.
Mio figlio non potrà mai fare quest’intervista a parlare di sé o dei suoi diritti, e allora ci sono io. Riguardo a me, però, come cittadino, non ho bisogno di servizi. Piuttosto avrei necessità che mi si riconoscessero un’ indennità e tutele, che tengano conto della mia e solo mia situazione.
Negli ultimi tempi sento che si sta sgomitando per dare ai caregiver familiari il sostegno psicologico. Faccio notare che gli enti territoriali forniscono già questo servizio a quanti non abbiano i mezzi per permetterselo e, se io dovessi averne necessità, so di poter attingere a questo sentendomi cittadino al pari degli altri.
Non bisogna rischiare di creare servizi ad hoc che, per essere mantenuti, necessitano poi di garantire un determinato numero di utenti.
Magari potrei voler andare a fare yoga, sport o semplicemente da un parrucchiere. Io veramente non capisco. Probabilmente ho dei limiti, lo ammetto.
E poi vogliamo parlare della formazione? Quando è stato diagnosticato il disturbo dello spettro autistico a mio figlio, i professionisti che lo hanno valutato, mi hanno esposto, come fa ogni medico nella sua funzione, il percorso da intraprendere e quindi la prognosi.
Tanto che oggi in casa mia, per mio figlio, c’è un via vai di persone che sono fondamentali per lui, ma che certamente invadono la mia intimità domestica. A questo qualcuno ci ha mai pensato?
Non toglierò nulla a mio figlio ma certo rivendico la mia individualità e fino a quando si continuerà a fare questa confusione tra me e lui la vedo dura.
Deve nascere un cambio di paradigma che non mi releghi a madre di, a caregiver familiare di, ma ad essere ascoltata veramente: chi sono, di cosa ho bisogno. Ecco questo desidererei.
Nelle situazioni come la mia, dove c’è una disabilità intellettivo-relazionale, il caregiver familiare e la persona con disabilità sono legati a doppio filo. Ma non è sempre così!
Se la disabilità non intacca la capacità di autodeterminazione della persona, questa rimane perfettamente capace di gestire la propria vita, i servizi, di esprimere le proprie sensazioni e volontà, di fare progetti.
Siamo allora di fronte a dei caregiver familiari o, più semplicemente, rientriamo in un rapporto di sussidiarietà e solidarietà familiare?
Nel mio caso non credo che nessuno possa giustificare i vincoli, che mi ha imposto la vita, con il principio di sussidiarietà familiare alla base del nostro ordinamento.
Cosa dovrebbe fare lo Stato per supportare i caregiver e le loro famiglie?
Vorrei poter lavorare, se potessi. Ma non ci sono aziende che mi permettano di avere una flessibilità oraria tale per conciliare tutto.
E in realtà neanche coi concorsi pubblici mi va meglio. Non ci sono accessi preferenziali per i caregiver familiari come me. Eppure io sono sempre la stessa. Con le mie competenze, quelle che io chiamo “della mia prima vita” e quelle, direi , manageriali che ho acquisito in questi anni per organizzare, gestire e programmare la vita di mio figlio che da solo non può.
Oggi, vedo lontana anche l’ipotesi di un reinserimento lavorativo semplicemente perché, nella mia invisibilità, non è contemplato e tremo al pensiero che, come accade talvolta, io possa sopravvivere a mio figlio.
Perché mi ritroverei anche e non solo, oltre al dolore incontenibile, la cui ipotesi fa paura, senza niente: né sostegno economico, né la possibilità di essere inserita o reinserita nel mondo del lavoro, né, qualora avessi un’età più avanzata, con i versamenti contributivi per giungere alla pensione.
Io come caregiver familiare di un ragazzo con disabilità intellettivo relazionale e cognitiva, devo necessariamente guardare al futuro anche una volta che io non ci sarò più. Non posso lasciare che nulla sia improvvisato.
E che dire poi della prospettiva, in termini di anni, che ho davanti con mio figlio? Una madre, un genitore, sa che lo attende tutta la vita con il figlio che non sopravvivrebbe senza di lei/lui.
Il tempo è un fattore determinante e soprattutto non ci esime dall’avere anche altre situazioni da fronteggiare, come può essere un genitore anziano con le sue patologie.
Mia madre ha 83 anni con tutti i suoi acciacchi, non riesce quasi più a camminare, ha bisogno che qualcuno si occupi di cose come: accompagnarla alle numerose visite specialistiche, fare la spesa, pagare le bollette, pulire casa. Ed io l’aiuto in questo. Ma è completamente diverso da mio figlio.
Tutto dipende dal tempo che si ha davanti. A lei, a mia madre io restituisco quello che lei mi ha dato e so che, inevitabilmente, sarà per un tempo comunque limitato. Con mio figlio non è così.
La naturalezza della vita, per quanto cruda, insegna che di solito si sopravvive a un genitore, presumibilmente dopo che sia il figlio sia il genitore stesso hanno vissuto la propria vita, per esempio raggiungendo una pensione (per il genitore) e per il figlio aver intrapreso un lavoro stabile con una famiglia propria.
Gli anziani sono stati e sono comunque ancora produttivi, fanno girare l’economia. É il tempo che si ha davanti che fa la differenza e sia io sia mio figlio, per la società rappresentiamo solo un costo.
Per cui cosa vorrei? Per me, quello che identifica un caregiver familiare è la convivenza, la tipologia disabilità, che io identifico in quella intellettivo relazionale, cognitiva o complessa perché se ci pensiamo bene, questa disabilità è di per sé non autosufficienza e quindi necessita di una persona adulta della famiglia, il caregiver familiare, che per lui si interfacci con i servizi, che interpreti i suoi bisogni, che organizzi la sua vita perché non è in grado di farlo da solo. Probabilmente neanche potrà mai lavorare.
Mio figlio presumibilmente non potrà. Nessuna azienda prediligerà lui. In realtà sono un po’ in imbarazzo, e lo dico sinceramente.
Mi si vuole sempre ingabbiare in qualcosa che non mi appartiene e che non mi rispetta. Io non sono la parte informale dei servizi. Io sono una madre che con quei servizi si interfaccia perché mio figlio non si autodetermina autonomamente e io sto tentando con fatica e anche creatività di costruire la sua vita per il dopo di me.
Quando io non ci sarò più, qualcun altro diventerà caregiver familiare al posto mio. Solo i genitori di persone con disabilità intellettivo relazionali e complesse hanno, purtroppo, questa prospettiva.
Vorrei inserimento e reinserimento lavorativo, vorrei indennità e tutele crescenti, vorrei emanciparmi dalla mia condizione, vorrei non sentir parlare di supporto psicologico e formazione.
Vorrei che mi fossero riconosciuti dignità e diritti soggettivi. Vorrei non essere confusa con mio figlio. Vorrei rispetto. Non vorrei servizi a me dedicati. Ma per tutto questo serve un grande cambio culturale, soprattutto, della politica.