Gender gap, nello sport è quasi la normalità
La parità dei sessi è ancora lontana: come combattere questa discriminazione?
Le donne che fanno sport in Italia? Sono quasi 18 milioni! Anche se i dati rilevati dal Censis si riferiscono al 2019 – quindi prima dello stop imposto dalla pandemia – si registra un aumento sostanziale della pratica femminile: rispetto ai dieci anni precedenti, il numero di sportive è cresciuto dell’11,9%.
Se si prende in considerazione solo chi fa attività fisica in maniera continuativa, si contano sei milioni e mezzo di praticanti, con un incremento del 25,5% rispetto al 2008.
Nonostante questa crescita molto significativa, rimane costante il gender gap nello sport: se si fa riferimento alla fascia d’età 15-17 anni, per esempio, la quota delle ragazze che fa attività fisica è pari al 42,6%, contro il 58,4% della controparte maschile.
La parità dei sessi in ambito sportivo è dunque lontana. Sempre secondo il Censis, dei 4.708.741 atleti tesserati nelle diverse Federazioni, le donne sono appena il 28%. Tra gli operatori sono ancora meno: le allenatrici sono solo il 19,8%, le dirigenti di società il 15,4% e le dirigenti di Federazione il 12,4%.
Parità di genere nello sport: la situazione nel calcio
Sebbene le discipline praticate siamo numerose, nella nostra penisola lo sport “per eccellenza” rimane indiscutibilmente il calcio. Ed è proprio in quest’ambito che il divario fra i sessi diventa ancora più marcato.
Il calcio infatti vanta il maggior numero di tesserati (1.056.824 atleti, dati del 2019), ma conta solo il 2% di praticanti femminili, nonostante la Serie A femminile sia diventata una realtà sempre più competitiva negli ultimi anni.
Sono molti i fattori che contribuiscono a questo gap. Il primo è sicuramente culturale: c’è ancora l’idea retrograda e sessista che il calcio non sia uno sport da donne. Ad incidere negativamente sulla situazione si aggiunge poi la questione economica: secondo l’Agi, fino a pochi anni fa una giocatrice non poteva ricevere un compenso superiore ai 30.658 euro lordi a stagione. La media annua nella massima serie è attorno ai 15mila euro, ben distante dagli stipendi dei campionati maschili.
La discriminazione delle donne nello sport
Purtroppo le discriminazioni presenti nel calcio si ritrovano in ogni ambito sportivo, perché i preconcetti relegano spesso le donne in secondo piano.
Di certo parte della responsabilità è anche dei media: ancora oggi giornali, televisioni e siti focalizzano la loro attenzione sulla bellezza e le caratteristiche estetiche delle atlete, dando poca visibilità ai loro risultati e alle loro performance. Inoltre la copertura mediatica è fortemente sbilanciata a favore degli uomini.
In generale, lo sport viene ancora spesso concepito come un’attività da uomini, poiché richiede virtù attribuite erroneamente solo ai maschi come aggressività, competitività e forza. Non bisogna poi dimenticare il tema della maternità, che rischia di trasformarsi in un ostacolo per la carriera (non solo sportiva!) se l’intero sistema di welfare è costruito a misura d’uomo.
Il caso Caster Semenya
Inoltre tra i fattori di discriminazione c’è sicuramente l’aspetto estetico, legato all’immagine stereotipata della figura femminile nello sport. A questo proposito, uno dei casi più controversi ha coinvolto l’olimpionica Caster Semenya. La velocista sudafricana nel 2009 è stata costretta a sottoporsi a un test per determinare il suo sesso. La discriminante? Il livello di testosterone dell’atleta. Dal 2019, la Iaaf, la Federazione Internazionale dell’Atletica, ha introdotto una nuova normativa, non prevista però nelle competizioni maschili.
Secondo quanto è stato stabilito, per gareggiare le sportive non devono superare un determinato livello ormonale: qualora esso sia superiore ai canoni stabiliti (5 nanogrammi di testosterone nel sangue), le atlete sono costrette a sottoporsi a controlli invasivi e a trattamenti medici che sconvolgono l’organismo, per poter abbassare la quantità di testosterone e poter partecipare alle gare con le altre donne.
L’alternativa è l’esclusione dalle competizioni, con tutte le conseguenze del caso. Nel 2020 però l’Ufficio dell’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha chiesto di eliminare questi test.
Gender pay gap nello sport
Un altro tasto dolente nell’ambito sportivo è il gender pay gap: a parità di disciplina e di livello, le donne vengono pagate meno. L’esempio più eclatante, come abbiamo visto, è quello del calcio.
Negli Stati Uniti la battaglia dell’equal pay è particolarmente sentita, tanto che il caso è finito in tribunale. Nel 2019 infatti 28 giocatrici della nazionale hanno fatto causa alla US Soccer Federation chiedendo un trattamento economico alla pari: le calciatrici vengono pagate 89 centesimi per ogni dollaro guadagnato dai loro colleghi maschi. Questo nonostante i grandi risultati ottenuti dalla nazionale femminile, che negli anni ha conquistato quattro titoli mondiali e altrettante medaglie olimpiche. Sebbene il tribunale distrettuale non abbia accolto le richieste delle calciatrici, la causa ha acceso i riflettori su questa situazione complessa.
Più virtuoso è sicuramente l’esempio del tennis, ma anche in questo caso il cammino verso la parità è stato lungo e tortuoso. Nel 1968 la disciplina fu resa completamente professionistica. Pian piano tutti gli Slam si sono adeguati, stabilendo un eguale montepremi per il torneo maschile e quello femminile: l’ultimo a conformarsi è stato Wimbledon che nel 2000 aveva ancora montepremi differenti.
Un altro aspetto da considerare è che, avendo una minore copertura mediatica, le atlete sono poco appetibili per gli sponsor e quindi vengono pagate meno per le loro collaborazioni con i brand.
Il gender pay gap, dunque, non è un problema solo delle professioni tradizionali, ma anche una questione di civiltà, che riguarda una delle espressioni culturali di cui andare più fieri: lo sport.
Cosa fare, allora? Secondo un documento dell’European Institute for Gender Equality (Eige), è fondamentale insistere affinché le organizzazioni sportive migliorino l’equilibrio di genere nei consigli e nei comitati esecutivi, nonché nella gestione e negli staff tecnici. Anche gli Stati sono chiamati a fare la loro parte. L’obiettivo? Eliminare norme e regolamenti che ostacolano la carriera sportiva delle donne.