intervista a Miriam Frigerio

Le parole danno forma al pensiero e ci danno l’energia giusta per cambiare il mondo: come ci racconta Miriam Frigerio, Head of Brand & Communication di Sorgenia, tra le grandi protagoniste dell’edizione 2022 di WomenX Impact

Come Head of Brand & Communication di Sorgenia, hai sviluppato iniziative di comunicazione e campagne pubblicitarie caratterizzate dalla centralità del contenuto. Perché consideri le parole come uno strumento di analisi della realtà?

“Le parole danno forma al pensiero” è il terzo principio del Manifesto della Comunicazione Non O_stile, del quale sono fiera di essere ambassador. È un concetto in cui ho sempre creduto, perché è con le parole che rappresentiamo il mondo, raccontiamo a noi stessi e agli altri i fatti e le cose, o meglio: la nostra interpretazione dei fatti e delle cose.

Credo che a tutti sia capitato di leggere o ascoltare la stessa situazione descritta con parole diverse, al punto da apparire come differente. Nelle relazioni fra le persone, interrogarsi sulle parole che usiamo noi e su quelle che usano gli altri, su che cosa significano per ciascuno, ci fa capire che non c’è nulla di scontato.

In questo senso, studiare le parole significa analizzare il mondo e le persone che lo abitano. È così anche storicamente, l’etimologia delle parole rivela molte cose dell’evoluzione sociale nel tempo. Ed è così anche nella comunicazione delle imprese, persino nella pubblicità.

Le parole associate a certi prodotti rivelano come vengono percepiti dalla società, ma possono anche influenzare questa percezione.

L’energia, ad esempio, è stata tradizionalmente raccontata come un concetto complesso, per il quale il comune cittadino doveva affidarsi all’esperienza di aziende garanti della sicurezza e dal piglio un po’ paternalistico.

Il mercato è cambiato, le nuove tecnologie rendono autoproduzione e consumo consapevole alla portata di tutti e anche il linguaggio è cambiato – e usa le parole quotidiane della gente comune.

Quali sono i valori che un brand deve comunicare per fare conoscere la propria identità e incentivare lo sviluppo dell’impresa?

Direi i valori in cui davvero credono le persone, a partire dai dipendenti, che in quel brand si riconoscono. Sono valori sui quali è giusto e opportuno interrogarsi, che vanno messi a fuoco, condivisi e discussi, ma non possono essere calati dall’alto.

Il brand non è un logo o un nome, ma un insieme di valori, un’identità collettiva nata da persone che condividono una visione del mondo e un obiettivo cui tendere.

Si parla molto di purpose, di scopo aziendale. Ma perché diventi volano di crescita deve essere davvero vissuto e dare un senso al lavoro quotidiano o alla scelta del cliente; viceversa, quando si trasforma in un insieme di regole di comportamento, lungi da essere una spinta diventa un ostacolo alla crescita.

Lavori affinché sostenibilità e inclusione siano valori concreti e dunque pratiche attuate in modo efficace anche in Sorgenia. Quali sono le iniziative messe in atto per ridurre il gender gap e supportare l’occupazione femminile?

Il mio lavoro è gestire il brand e la comunicazione di Sorgenia verso l’esterno. Come accennavo prima, per essere credibile un brand deve essere coerente fra quello che dice all’esterno e quello che è al suo interno.

In questo senso, sono fiera che ormai da cinque anni Sorgenia sia nella top ten di Best Place to Work in Italia, e dal 2020 sia stata dichiarata Great Place to Work for Women, sulla base di una ricerca condotta fra tutte noi che ha messo in evidenza il nostro senso di credibilità, coesione, equità, orgoglio e rispetto.

Direi che non si tratta tanto dell’effetto di policy e procedure, quanto del clima di cooperazione e apertura che si respira a tutti i livelli, e che non riguarda solo il ruolo delle donne, ma ad esempio anche lo spazio dato ai più giovani.

Negli ultimi anni è stata evidente la crescita femminile anche in funzioni legate a competenze STEM, che per certi versi ha rispecchiato l’aumento delle ragazze laureate in discipline fino a non molto tempo fa tipicamente maschili, una tendenza positiva che favorisce appunto la valorizzazione sia delle giovani generazioni sia delle donne. Non a caso i neo-assunti nel 2021 si dividono in egual misura tra uomini e donne.

Credo però che ancora più importante sia permettere alle giovani colleghe di crescere professionalmente, mantenendo l’equa distribuzione tra generi, ad esempio nei corsi di formazione o nei progetti cross-funzionali. Ancora una volta, è più un tema di approccio che di regolamenti.

Personalmente non credo che l’integrazione delle donne sul lavoro sia sinonimo di speciali policy per i congedi di maternità, ma certo in Sorgenia le colleghe (e quest’anno ne abbiamo avute tante!) che diventano mamme si assentano con assoluta serenità, certe di poter rientrare a tempo debito senza alcuna penalizzazione, anzi potendo contare su un sistema capace di garantire un equilibrio casa-lavoro che non è fatto di permessi e orari ridotti, ma di disponibilità e relazioni.

Le parole possono fare la differenza anche quando si tratta di ridurre la discriminazione?

Assolutamente sì, a vari livelli. Nell’ambito di #sempre25novembre, l’iniziativa di Sorgenia contro la violenza di genere, l’anno scorso e quest’anno abbiamo raccolto storie vere di donne che hanno vissuto situazioni di violenza. Il ruolo delle parole è sempre evidente, nelle sue diverse forme, da quelle più aggressive a quelle velate e insidiose.

Ci sono parole dispregiative specificatamente femminili, mentre l’equivalente maschile spesso tradisce una punta di ammirazione. Qui davvero le parole danno forma a pensieri stratificati negli anni e nei contesti, che certo non ho io la competenza per analizzare.

Poi c’è l’uso distorto della lingua italiana nel caso di figure o ruoli femminili. Personalmente sono sempre stata perplessa davanti alla modifica della lingua a priori, come l’inserimento di nuovi grafemi (ad esempio l’asterisco) per creare un genere neutro che l’italiano non prevede.

Perché è vero che la lingua evolve, ma deve farlo in modo spontaneo e naturale, non creando suoni che poi non si sanno bene pronunciare (penso alla schwa), sintagmi confusi (ho visto scritto agl* tutt* l* student*) o varianti inutili (car* utent*, quando utente in italiano è “nomi di genere comune”, quindi indica naturalmente sia il maschile sia il femminile).

Detto questo, le regole dell’italiano non lasciano dubbi: come non esiste il genere neutro, non esiste nemmeno un “maschile di ruolo”.

Se le parole danno forma ai pensieri, il fatto di non voler usare parole al femminile per descrivere ruoli apicali o professioni tradizionalmente maschili, è una forma di ostacolo alla naturale evoluzione sociale, per cui una direttrice non necessariamente è quella didattica della scuola elementare di paese.

È questione di abitudine, non sempre è facile, ma credo valga la pena fare qualche sforzo. Da qualche tempo sto cercando di eliminare l’articolo determinativo davanti ai cognomi di una donna: ormai è uso quasi universale indicare Mario Brambilla solo come “Brambilla”, ma allora perché se parlo di Luisa Rossi – sia una prof, una collega, una deputata o una giornalista – devo dire “LA Rossi”?

Come donna in una posizione di leadership “ti senti sola” o noti che la presenza femminile nei board sta aumentando?

Francamente faccio fatica a vedermi in una posizione di leadership. Mi sento più come una persona con vent’anni di esperienza professionale, che inevitabilmente ha sperimentato e imparato tante cose e che adesso prova un’enorme gratificazione nel condividerle: sia con i più giovani – perché non ha senso ripartire sempre da capo  – sia con miei coetanei,  scoprendo i tratti costanti in una certa fascia di popolazione e gli elementi che la differenziano al suo interno.

Credo moltissimo nel fatto che, oltre che di leader, ci sia un gran bisogno di persone comuni che si dedichino a realizzare un piccolo pezzettino che possa confluire in un disegno più grande. Essere uno fra tanti non significa rinunciare alla propria identità, ma valorizzarla nella consapevolezza che le infinite differenze fanno crescere le società.

Certo, rispetto a quando ho iniziato a lavorare ci sono molte più donne in posizioni apicali e non fanno notizia. E questo è bene. Però per me è ancora più importante che ci siano tante donne in tutti i lavori, perché solo abituandosi a vederle in tutti i ruoli senza stupirsi (e senza chiedersi come chiamarle!) che andremo verso reale eliminazione del gender gap.

Quale consiglio daresti a una ragazza che sogna di intraprendere il tuo stesso percorso nel mondo digital e della comunicazione?

Il mondo cambia a ritmi sempre più accelerati, che la comunicazione deve seguire.

È importante dominare i trend, i canali e le loro evoluzioni, ma ancora più importante è conoscere i fondamentali.

La comunicazione non è una scienza, tanto meno esatta, ma è una disciplina, con regole e principi. Per superarli bisogna averli ben chiari. La teoria della comunicazione di Jakobson vale anche su TikTok.

La lingua evolve, ma anche su un post non sono ammessi refusi o – peggio ancora – errori grammaticali. Anche i generi letterari evolvono, ma le serie tv insegnano l’importanza di un intreccio ben costruito, che forse si impara di più da Shakespeare e dal teatro classico che dalle stories.