Intervista a Valentina Falcinelli, brand personality strategist e consulente di identità verbale

intervista a Valentina Falcinelli

Dal politicamente corretto al timore della cancel culture, passando per il tema dell’inclusività: come cambia il linguaggio, anche nell’ambito del copywriting? Ne abbiamo parlato con Valentina Falcinelli, brand personality strategist e consulente di identità verbale

Di te dici: “So scrivere senza guardare la tastiera, ma non so guardare la tastiera senza scrivere”. Cosa c’è di magico nelle parole che ti appassiona?

La loro capacità di plasmare il modo con cui vediamo le cose. Di accendere gli animi (“I have a dream” o “Yes, we can” ce lo ricordano bene), o di spegnerli. Di aprire finestre e di piegare grate. Di avvicinare, di far innamorare…

Trovo sempre incredibile come una parola, anche solo una piccola, minuscola parola, possa fare la differenza all’interno di un intero e lunghissimo discorso.

Di come una manciata di parole possano dar vita a slogan memorabili, capaci di resistere al tempo e alle mode (vedi il “Just do it” di Nike, per esempio). Di come una parola soltanto possa raccontare un brand dandogli un nome attorno al quale costruire una storia (“Amazon”).

Le parole hanno il potere di creare infinite possibilità narrative. Pensa solo a quante storie dietro le parole “figlio” o “desiderio”. Le parole possono essere cesoie affilate e chiudere ogni narrazione. “Fine” o “Punto” o “Basta” chiedono di chiudere, di voltare pagina. Di scriverne una nuova.

Racconti il tuo lavoro e insegni agli altri i trucchi del mestiere: ma in un mondo che vive sempre più di immagini e video virali, in stile Khaby Lame, le parole hanno ancora importanza?

Le didascalie dei post social, i sottotitoli dei video, le bio: sono parole.

I video, e in generale le immagini, sono da sempre una forma di comunicazione potente – e questo non lo scopriamo certo ora, con Khaby Lame, ma con i graffiti sulle pareti delle caverne, quindi giusto qualche millennio fa…

Pur nella loro potenza, data anche proprio dalla modalità in cui il cervello le processa, le immagini non possono vivere senza le parole.

Spesso prima di un’immagine ci sono proprio le parole. Prima di un video, c’è uno script. Prima di un logotipo, c’è un brief; assieme al logotipo, un razionale. E le idee… Le idee sono parole che mettiamo per iscritto, per non ridurle a vapore.

Tutto è immagine. E tutto è parola.

Qualche tempo fa Treccani ha scelto di riportare la forma femminile delle professioni, cosa pensi di questa scelta: la parità di genere si raggiunge anche con le parole?

Certo che sì. Diciamo che la parità di genere si raggiunge prima di tutto con azioni concrete, da attuare nella quotidianità, e in tal senso anche la scelta delle parole da usare rappresenta un modo di agire.

C’è chi vede questa azione come vuota, per me invece è un segnale di cambiamento. Che qualcosa si muove. Che qualcosa può cambiare.

Come deve cambiare il linguaggio, anche nell’ambito del copywriting, per favorire l’inclusione?

Chi si occupa di copywriting, oggi, ha il dovere di interrogarsi di più sui suoi scritti.

Deve valutare se parlano a tutte le persone e se, al contempo, sono fluidi, scorrevoli, leggeri. Il lavoro si fa in tal senso più impegnativo, ma è il giusto prezzo da pagare per permettere alle aziende di arrivare ancor meglio al proprio pubblico. Non è quindi tanto il linguaggio a cambiare, a dover cambiare, ma il modo con cui chi scrive deve approcciare al testo.

Poi, piccola nota a margine, un’azienda è davvero inclusiva quando pratica l’inclusione oltre le parole che usa per rappresentarsi al mondo.

Dal politicamente corretto al timore della cancel culture, passando per l’utilizzo dello schwa (“ə”): se il linguaggio viene “condizionato” dalle convenzioni, si impoverisce o si rinnova?

Su questo tema c’è un dibattito aperto che si rinnova ogni giorno, in modo più o meno costruttivo. La Crusca stessa, che è un’istituzione, ci dice che la lingua è una materia viva, liquida.

Non bisogna quindi spaventarci dei cambiamenti cui è soggetto il linguaggio, ma abbracciarli e continuare a dar valore all’italiano. Io, comunque, non mi sento la persona più titolata per parlare di un argomento così complesso, attuale e, se vogliamo, anche polarizzante come questo. Posso però portare il mio punto di vista e raccontare, in breve, il mio approccio al linguaggio.

La scelta che attuo ogni giorno con i testi che scrivo è provare a rigirare la frase affinché non ci sia il bisogno di una doppia declinazione o di un simbolo. Non è sempre possibile, e alle volte mi ritrovo a doppiare, ma, prima di gettare la spugna – e richiedere al testo una verbosità che con una solo declinazione non avrebbe –, provo. E riprovo.

Alle volte abbandoniamo la strada della riformulazione per pigrizia o abitudine; ecco, io è questa condizione mentale, prima ancora che lavorativa, che cerco di allontanare. Il linguaggio non deve impoverirsi e questo non succederà fintanto che ci saranno copywriter che, con scrupolo e attenzione, sceglieranno le migliori parole e le migliori strategie comunicative per dire ciò che il brand vuol dire a chi vuole dirlo.

Ho rigirato qualche frase per essere inclusiva, ma secondo me non ci avete fatto caso. Questo per dire che, per citare una celeberrima frase di un film cult, “Si. Può. Fare”.