Un linguaggio inclusivo contro gli stereotipi di genere
Come le parole possono educare alla parità
La lotta agli stereotipi passa ogni giorno dall’uso di un linguaggio inclusivo e dalla scelta di termini più o meno specifici per descrivere il lavoro, le caratteristiche e le passioni delle donne. Nel 1987 Alma Sabatini scriveva “Il sessismo nella lingua italiana”, mettendo in luce il legame tra discriminazione culturale e discriminazione semantica, sottolineando al contempo tutta una serie di profondi e radicati stereotipi sul genere.
Dal momento che, secondo Sabatini, usare la lingua in modo non discriminatorio era ed è, oggi più che mai, possibile, in appendice della sua opera, l’autrice forniva una serie di consigli pratici con esempi sulle parole e la generalizzazione da evitare, come:
- “Uomo” e “uomini” intese in senso universale;
- L’uso automatico del maschile neutro parlando di popoli, categorie e gruppi;
- Dare sempre la precedenza al maschile nelle coppie oppositive uomo/donna;
- Accordare il participio passato al maschile, quando i nomi sono in prevalenza femminili;
- Citare le donne come una categoria a parte, distinta dalle altre.
Gli stereotipi nella lingua e nel pensiero
Come gli adolescenti definiscono le donne
Purtroppo, tra gli adolescenti italiani, benché appartengano a una generazione molto più sensibile alle tematiche sociali e al linguaggio inclusivo, è ancora oggi presente una forte stereotipia di genere e, con essa, la resistente convinzione dell’esistenza di ruoli che prevedono il primato dell’uomo nelle posizioni apicali e quello della donna negli oneri di cura e assistenza familiare. Ciò è quanto è stato dimostrato dall’indagine campionaria nazionale sullo Stato dell’adolescenza 2023, che ha coinvolto 4.288 studentesse e studenti di scuole pubbliche secondarie di secondo grado.
Fornendo agli studenti un elenco di ruoli e azioni, è stato chiesto poi loro di indicare chi sia più portato a ricoprirli: gli uomini, le donne o se il sesso sia irrilevante.
Un’adesione medio-alta ai ruoli di genere maschili, che attribuiscono agli uomini determinate capacità o attività come comandare a lavoro, fare il presidente, fare il poliziotto, guidare, giocare a calcio, giocare ai videogiochi, combattere nello sport, guadagnare tanto e fare lo scienziato, si rintraccia nel 36,7% degli adolescenti, ed è nettamente più diffusa tra i rispondenti di sesso maschile (49,6% maschi e 18,4% femmine).
Si posizionano invece su un’adesione medio-alta ai ruoli di genere femminili, richiamati da attività quali cucinare, danzare, insegnare, occuparsi dei figli, pulire, fare la spesa, parlare per molto tempo al telefono e leggere, il 20,4% degli adolescenti, con un’importante prevalenza ancora maschile (26,9% maschi e 11,3% femmine).
Il linguaggio inclusivo di genere: l’esempio dello schwa
Ma allora, cosa si può fare per rendere la lingua più accurata e inclusiva, senza escludere o discriminare nessuno sulla base di parametri soggettivi? Recentemente è salito alle cronache l’uso dello schwa (/ə/) che, a differenza di quanto creduto da molti, non è un segno nuovo, inventato da chi fa attivismo a sostegno della causa dell’inclusività.
Lo schwa (/ə/) è una vocale presente dalla fine dell’Ottocento nell’alfabeto fonetico internazionale e deriva dalla parola ebraica shĕvā, “nulla”. Ma perché lo schwa è diventato simbolo di inclusività? La soluzione sta proprio nella forma fisica assunta dalla lettera: non è una a e nemmeno una o, sta esattamente a metà strada tra femminile e maschile.
Un altro aspetto interessante è che lo schwa viene utilizzato non solo come segno grafico, ma anche fonetico. È di fatto un suono pronunciabile dalla bocca umana e quindi può essere replicato anche nel parlato. Dal 2020 diventato norma editoriale a seguito di diverse pubblicazioni che usavano questa “nuova” vocale, la regola attuale sull’uso dello schwa dice che deve essere usato solo quando si devono o si vogliono enfatizzare le differenze di genere. In tutti gli altri casi, per ora, si cerca di usare l’italiano inclusivo nella sua forma più ampia, come suggeriva già negli anni Ottanta Sabatini.
I limiti dell’inclusività nella lingua
Le opzioni per poter e voler essere inclusivi di certo non mancano, tuttavia occorre fare un passo indietro. Infatti, se continuiamo a rivolgerci ad un linguaggio inclusivo con lo scopo di non escludere o discriminare nessuno sulla base di parametri arbitrari, è facile rendersi conto di come questa criticità linguistica non sia legata solo al linguaggio di genere, ma implichi lo sforzo di parlare a tutte le persone, superando qualsiasi barriera fisica o sociale.
L’inclusività, quindi, non passa solo dalle parole che scegliamo, ma anche dalla forma in cui queste vengono usate. Specialmente se si scrive per il web, un testo si può dire pienamente inclusivo nel momento in cui ogni persona è in grado di fruirne. Questa constatazione pone tutti, linguisti, specialisti e semplici parlanti di fronte a uno sforzo più difficile: approfondire le potenzialità della lingua italiana, imponendosi di riflettere ogni qual volta sorga un dubbio, fino a che modi ed espressioni che ora possono sembrare artificiosi non prenderanno piede diventando la nuova norma.
La lotta contro gli stereotipi sulle donne
Più in generale, l’uso del linguaggio inclusivo è al centro dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Con target attesi ben precisi, gli Stati sottoscrittori si impegnano nei prossimi anni ad “astenersi da qualsiasi atto o pratica discriminatoria nei confronti della donna ed agire in maniera da indurre autorità ed enti pubblici a conformarsi a tale obbligo”, oltre che a “prendere ogni misura adeguata per eliminare la discriminazione”.
Sullo sfondo ci deve però essere uno sforzo effettivo e materiale per ridurre il gap tra uomo e donna. Per questo è importante sottolineare le tante iniziative messe in campo dalle istituzioni, a partire dai progetti dei fondi di coesione europei legati alla riduzione del divario di genere. Un focus rimasto centrale nei vari cicli di programmazione, che si è via via ampliato e arricchito negli anni di nuove idee e spunti. Lo stesso ciclo 2021-2027 prosegue in questa direzione, garantendo continuità e rafforzamento l’attenzione sul tema.
È stato studiato come gli stereotipi di genere siano il prodotto della “socializzazione binaria”, ovvero della distorsione del pensiero che orienta atteggiamenti e comportamenti umani sulla base di schemi interpretativi delle relazioni di genere che prevedono il primato sociale dell’uomo sulla donna. Questi stereotipi, duri a morire perché, come una profezia che si autoavvera, sono idee che si alimentano della loro stessa diffusione, non sono solo responsabili degli squilibri di potere nelle relazioni di coppia, familiari, lavorative e professionali, ma costituiscono il nucleo cognitivo del pregiudizio, dal quale scaturiscono forme di discriminazione e violenza di genere.