Part time: scelta libera o obbligata per le donne?
In Italia il lavoro a tempo parziale non è ancora visto come un’opportunità
Il binomio donne e lavoro part time sembrerebbe a prima vista vincente: questa modalità permette infatti alle mamme, a chi si vuole occupare della propria famiglia o a chi desidera portare avanti altri interessi parallelamente al lavoro, di avere il tempo necessario per poterlo fare, senza rinunciare a un’entrata economica fissa. Inoltre, il part time è di solito legato anche a una maggiore flessibilità – oraria e gestionale – che garantisce una certa autonomia nel raggiungimento degli obiettivi previsti dalla propria occupazione.
Per le donne, però, lavorare part time si trasforma spesso da un’opportunità a una scelta obbligata. Perché? Una domanda spinosa, tornata nuovamente all’attenzione del dibattito pubblico dopo l’esplosione della pandemia di Coronavirus.
Il diffondersi del Covid-19 ha costretto molte famiglie a trovare una soluzione per badare ai figli, a seguito della chiusura delle scuole. E, in molti casi, sono state proprio le donne a dover modificare il proprio orario di lavoro – ricorrendo al part time al posto del tempo pieno – o, addirittura, rinunciando a tornare alla loro occupazione.
A prescindere dalla situazione di emergenza, il lavoro part time per le donne diventa spesso l’unica soluzione possibile per riuscire ad occuparsi della propria famiglia, come sottolinea il rapporto di Save the Children dal titolo “Le equilibriste. La maternità in Italia”, che sottolinea come più del 40% di tutte le madri, di qualsiasi età, con almeno un figlio, debba necessariamente optare per il part time pur di continuare a mantenere un’occupazione.
Come funziona un contratto part time
Più nello specifico, cos’è il contratto di lavoro part time? Si tratta di un rapporto di lavoro, previsto dal Diritto del lavoro italiano, caratterizzato da un orario ridotto rispetto a quello normale a tempo pieno. Tre le modalità in cui si applica:
- part-time orizzontale. Si ha quando la riduzione di orario è giornaliera ed è prevista in relazione al normale orario quotidiano di lavoro;
- part-time verticale. L’attività è svolta a tempo pieno, ma limitatamente ad alcuni giorni della settimana, del mese o dell’anno;
- part-time misto. Una combinazione delle due precedenti modalità.
Il lavoratore part time ha diritto allo stesso trattamento economico (per numero di ore in cui lavora) dei lavoratori a tempo pieno. Ma non sempre è così, in particolare per le donne. Vediamo insieme perché.
Le differenze negli stipendi
Nel caso in cui la donna opti per un impiego part time, è da sottolineare che in molti casi riscontra un’importante differenza di paga oraria, come rivela un approfondimento pubblicato dalla rivista Micron, che incrocia alcuni dei dati più recenti di AlmaLaurea, Istat ed Eurostat.
Lo studio rivela che a fronte di una crescita del part time tra le lavoratrici italiane – che si calcola riguardi, complessivamente, il 20% delle donne con un figlio e il 23% di quelle con più figli – aumenta anche una diseguaglianza negli stipendi. A parità di mansione, titolo di studio e contratto, nel nostro Paese si registra infatti un gender pay gap pari al 4,1% nel pubblico e addirittura del 20% nel privato.
E i dati diffusi dall’Inps lo confermano: il reddito medio degli uomini è quasi il doppio di quello delle donne e le libere professioniste, iscritte a una delle casse private di un ordine professionale, guadagnano il 38% in meno dei loro colleghi uomini.
Donne e lavoro part time: come influisce il gender gap
Uno studio del Censis, pubblicato a fine 2019, evidenzia come le donne, anche nell’ambito del lavoro part time, subiscano gli effetti del gender gap, ovvero della disuguaglianza di genere soprattutto in Italia.
La ricerca sottolinea come nel nostro Paese le donne che lavorano siano 9.768.000, ovvero il 42,1% degli occupati complessivi. Con un tasso di attività femminile del 56,2% siamo all’ultimo posto tra i Paesi europei; in testa c’è la Svezia, dove si raggiunge l’81,2%. Uno tra i motivi alla base di queste percentuali è che per molte donne lavorare e formare una famiglia rimangono ancora oggi due percorsi spesso incompatibili.
Una donna italiana occupata su tre (il 32,4%, cioè più di 3 milioni di lavoratrici) ha un impiego part time per potersi occupare dei figli. Nel caso degli uomini questa percentuale si riduce all’8,5%. “Lungi dal rappresentare una forma di emancipazione e una libera scelta” – si legge nello studio del Censis – “il lavoro a tempo parziale è subito per mancanza di alternative da circa 2 milioni di lavoratrici (è involontario per il 60,2% delle donne che hanno un impiego part time)”.
Si tratta di un dato che nasconde una componente culturale radicata e limitante: sempre secondo i dati del Censis, il 63,5% degli italiani riconosce infatti che a volte può essere necessario o opportuno che una donna sacrifichi parte del suo tempo libero o della sua carriera per dedicarsi alla famiglia.
Ma non solo in Italia: l’ufficio statistico dell’Unione Europea ha realizzato una ricerca che evidenzia come, in tutti i Paesi europei, il 28,7% delle lavoratrici part-time ha fatto questa scelta perché deve occuparsi di un familiare, contro appena il 5,9% dei colleghi maschi.
Un paradosso: se l’occupazione femminile non cresce, il Paese si ferma
L’Italia sta vivendo in un paradosso, raccontato di recente anche da Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, in un’intervista a Repubblica. Valerii ha evidenziato come aumentare il tasso di occupazione femminile non sia solo un’esigenza culturale, ma una questione di interesse nazionale, perché con troppe poche donne al lavoro “l’Italia non può crescere”. “Il problema” – ha sottolineato Valerii – “è che in Italia non abbiamo politiche serie di conciliazione dei tempi di lavoro con i carichi familiari, oltre a specifiche misure di sostegno alla genitorialità”. E ancora: “L’Italia è in pieno declino demografico da quattro anni e nei prossimi trent’anni perderà 4,5 milioni di abitanti, soprattutto nella fascia di età attiva (15-64 anni) della popolazione, con problemi evidenti di sostegno della spesa pubblica e del welfare. La chiave di volta è nell’alzare il tasso di attività lavorativa femminile dando più opportunità di lavoro alle donne che oggi per quasi la metà non ne hanno. Non è solo una questione di parità, ma di interesse nazionale”.
È quindi interesse comune e responsabilità di ognuno agire per un futuro più equo.