Nata in una famiglia di medici, Rizzo ha scelto la carriera in azienda. E, dopo essere arrivata al vertice di un gruppo internazionale, ha deciso di rimettersi in gioco, per conciliare meglio famiglia e occupazione.”
Le scelte importanti non hanno mai spaventato Rossella Rizzo. E, a 46 anni, sono almeno due le decisioni che hanno contribuito a disegnare la sua carriera. La prima, quella di rinunciare alla professione “di famiglia” per seguire le proprie passioni e aspirazioni; la seconda, quella di lasciare un ruolo di vertice in un’azienda internazionale per rimettersi in gioco, ancora una volta con successo. Rizzo è infatti ora – più che felicemente – Chief Operations Manager di C4B srl, realtà specializzata nell’erogazione di servizi direct marketing, database prospect, liste marketing, nominativi e telemarketing.
Ci vuole raccontare meglio come è arrivata alla sua posizione attuale?
Sono figlia di medici, ma non ho voluto seguire le orme dei miei genitori. Pur essendo cresciuta in un ambiente estraneo al mondo delle aziende ne sono però sempre stata attratta, sentendomi in qualche modo predisposta. Ho deciso quindi per una laurea in ingegneria gestionale, anche se non avevo un’idea precisa del lavoro che avrei voluto fare, né esattamente cosa potesse significare la gestione di un’azienda. Sono entrata nel mondo del lavoro nel controllo di gestione di una delle realtà più importanti della mia città, Padova: un’esperienza incredibilmente formativa, che però mi ha messo di fronte a un’evidenza che non avevo considerato.
Quale?
Che l’azienda non ti regala niente, e che sei tu che devi costruire il tuo percorso, sapere a cosa puntare e avere una strategia per realizzare i tuoi obiettivi. Io avevo l’illusione che bastasse una laurea brillante per intraprendere un percorso di crescita costante. In quel momento – avevo circa 27 anni – mi sono accorta che se non avessi cercato un cambiamento, il mio destino sarebbe stato segnato dalla routine e da una crescita lentissima: mi vedevo a 40 anni – che all’epoca mi sembravano tantissimi – ancora nella stessa posizione. Così ho cambiato lavoro, e sono passata alla consulenza aziendale con una realtà internazionale.
Un’esperienza che ritiene importante?
Più che importante, direi fondamentale. Lavoravo per un brand molto forte e riconosciuto, e ho avuto la possibilità di crescere sia a livello professionale che umano: ho imparato, per esempio, a vincere la mia timidezza grazie al ruolo di relatrice in riunioni e convegni, ma anche a gestire tutti gli inconvenienti che un ruolo sempre in prima linea comporta. Ho fatto molte trasferte e ho vissuto per lunghi periodi in città diverse. Sentivo la competizione, certo, ma in senso positivo: uno stimolo alla crescita e al confronto continuo, un invito a mettersi alla prova e a superare i propri limiti. Sono stati dieci anni molto intensi, in cui sono passata da consulente a senior manager, con tanto di gravidanza in mezzo.
E poi cos’è successo?
Che si cresce, la vita cambia e così anche le prospettive. Dovevo prendere una decisione. Mi sono chiesta se volevo vivere quella vita per sempre: ricca di sfide e stimolante, certo, ma fatta anche di tanti sacrifici, pressione e stress costante. E decido di voltare pagina.
Arrivando al suo ruolo attuale.
Sì, e mi ritengo davvero fortunata perché lavoro per una società estremamente dinamica, giovane, con bellissime prospettive di crescita, in cui posso contare su un rapporto di estrema fiducia da parte dei soci e amministratori, che mi hanno riconosciuto la massima autonomia e libertà di azione. E questo credo che sia il modo migliore per motivare le proprie risorse e ottenere il massimo da loro.
Quali crede che siano le doti e le caratteristiche che l’hanno aiutata in questo percorso?
La capacità di adattamento e un approccio molto positivo alle cose: cerco sempre di guardare a ciò che funziona, a focalizzarmi su quello, perché in ogni ambiente c’è sempre qualcosa di migliorabile.
Lei ha lavorato e lavora in ambiti in cui la presenza maschile è predominante. Da cosa dipende, secondo lei, questo gap?
È una differenza che ho notato anche io e a cui, all’inizio della mia carriera, non ero preparata. Con una battuta, è molto più facile che nell’ufficio con la scrivania e la pianta di ficus ci sia un uomo e che le donne stiano nell’open space, piuttosto che il contrario. La motivazione? Un fattore culturale che, se devo essere sincera, secondo me contribuiamo a creare anche noi. Molto spesso crediamo di avere una sorta di difetto strutturale per il fatto di essere donne, di dover gestire una famiglia e una casa, e dunque tendiamo a non pretendere una crescita professionale per la paura di deludere qualcuno un domani. È capitato anche a me: io stessa pensavo a una famiglia prima ancora che questa eventualità esistesse e mi sentivo in qualche modo predisposta alla rinuncia. Poi ho capito che non è il tempo che dedichi al lavoro a fare la differenza, ma la qualità del tempo stesso.
Cosa possono portare in più le donne in un settore come il suo?
Prima di tutto concretezza: tendenzialmente le donne sono più brave a trasformare in operatività le strategie. Inoltre, possono garantire doti di precisione e organizzazione: sono infatti capaci di trasferire le logiche dell’economia domestica nella vita dell’azienda. Normalmente amano l’ordine – pertanto tendono a chiudere i progetti e non a lasciarli aperti per un tempo indefinito – e sono più puntuali: elementi sui quali gli uomini dovrebbero riflettere maggiormente. Poi, a seconda dell’indole dei singoli individui, possono competere con gli uomini in assoluta parità in termini di creatività. Sulla visione strategica credo che invece le donne debbano ancora imparare molto dagli uomini che, normalmente, tendono ad avere una visione sul medio-lungo periodo più efficace. Insomma, se le grandi idee vengono agli uomini, poi è meglio che, per realizzarle concretamente, si affidino a una donna.
Lei ha raggiunto posizioni di grande rilievo in giovane età, ma non per tutte le donne è facile questa scalata al successo. Quali sono, a suo parere, le strategie da mettere in atto per favorire la crescita professionale delle donne nel mondo del lavoro?
Potrei dire che servirebbero migliori politiche sociali per la famiglia, orari flessibili e ricorso al part-time, ma, per indole, tendo sempre a chiedermi cosa dovrei fare io perché qualcosa avvenga, piuttosto che aspettarmi un aiuto di qualsiasi tipo dall’esterno, con il rischio di rimanere bloccata e di perdere quei treni che passano una volta sola. Credo quindi che le donne debbano imparare prima di tutto a fare i conti con la situazione e il contesto attuali, e da qui partire per disegnare il loro futuro come lo vorrebbero e pretendere che questo possa avverarsi. Anche perché, dall’altra parte, ci può essere qualcuno pronto ad ascoltarci, proprio come è successo a me per la mia attuale posizione.
Ci racconta come è andata?
Già in fase di colloquio mi sono piaciuti l’approccio e la fiducia che mi veniva concessa. Per questo mi sono sentita di fare la mia proposta, ovvero che, per trovare un miglior compromesso tra vita professionale e privata, avrei voluto lavorare quattro giorni la settimana. Dall’altra parte ho trovato mente aperta e piena comprensione, perché era chiaro che la mia era la richiesta di una persona che aveva pensato a un suo percorso e che questo non toglieva nulla a lavoro. E mi è stato detto di sì.
Come tante donne manager, anche lei deve conciliare famiglia e lavoro. Come ci riesce? Nel suo percorso ha trovato aiuti in questo senso?
Mio figlio ora ha 11 anni e quindi le cose sono più semplici rispetto a qualche anno fa. Sicuramente qualche aiuto l’ho trovato, ma credo anche di essermelo meritato: la famiglia l’ho costruita dopo aver definito la mia identità professionale e le agevolazioni – in termini di trasferte e di orario di lavoro più flessibile – credo che non siano state un regalo, ma la volontà di trovare un punto di equilibrio per continuare una collaborazione proficua da entrambe le parti.
Più in generale, cosa ritiene si potrebbe fare per compiere dei passi avanti sotto questo punto di vista?
Ancora una volta, più che a livello normativo, mi viene più facile pensare a quello che dovrebbero fare le donne in prima persona. E quindi dico imparare a delegare nel lavoro. Per la propria crescita si deve infatti puntare sulle competenze, sulle metodologie e sulle relazioni, non strettamente sull’operatività: in questo modo il valore di una donna non dipenderà solo dal tempo che dedica al lavoro, che con la famiglia per necessità dovrà calare, ma sulla qualità della sua presenza.
La recente pandemia di Coronavirus ha cambiato il modo di lavorare: quali gli aspetti negativi e quali, invece, le potenzialità nate da questo periodo particolare?
Tra gli aspetti negativi, direi soprattutto la riduzione delle relazioni umane nel mondo del lavoro: credo infatti molto nell’aggregazione, nel team building, nel parlare, nel confronto che può avvenire anche davanti alla macchinetta del caffè. Piccoli momenti, se vogliamo, ma che formano il gruppo e una “comunità” anche sul posto di lavoro. Credo anche molto nella forza di una riunione di persona: è più facile catturare l’attenzione di un potenziale cliente, creare motivazione tra i colleghi, risolvere un momento di criticità. Gli aspetti positivi? Il primo, più in generale, che anche gli uomini hanno toccato con mano cosa significhi avere una casa e una famiglia: spero che in futuro saranno più solidali con le donne. Sul lavoro, la modalità da remoto ha poi imposto appuntamenti e scadenze molto rigide dal punto di vista organizzativo: l’attività di project management è diventata molto più strutturata, sullo stile anglosassone. Ora la sfida sarà mantenere questa buona pratica nel tempo, anche quando le riunioni torneranno a essere all’interno di una stanza, non più virtuale.
Si è molto parlato di smart working, anche come alternativa vincente per le donne lavoratrici. È d’accordo? O ritiene che il lavoro agile dovrebbe prevedere qualche accortezza maggiore per essere davvero a misura di donna?
Credo che possa essere un’alternativa vincente non solo per le donne, ma anche per gli uomini. La mia opinione? Che questa modalità verrà utilizzata più spesso, ma non in maniera esclusiva. Un’idea che mi piace: ritengo che sarebbe utile se costituisse una parte e non la totalità delle giornate lavorative. Come ho già detto, la relazione diretta resta per me un elemento fondamentale.