Victim blaming: cos’è e come si manifesta
Colpevolizzare la vittima è solo un aspetto di questo “modo di fare” che ha risvolti psicologici molto complessi
Manca poco alla Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, in calendario il 25 novembre: un appuntamento importante che ci ricorda che, purtroppo, i passi da compiere per arrivare a proteggere veramente le vittime sono ancora molti.
Come riporta il Messaggero, da inizio anno fino a metà settembre sono stati ben 83 i femminicidi avvenuti nel nostro Paese, di cui sette in sole due settimane. E va sottolineato che, dietro questi fenomeni “estremi”, spesso ci sono episodi di violenza quotidiani, con implicazioni molto complesse che riguardano sia la dimensione fisica sia la dimensione psicologica.
Victim blaming: che cos’è
Purtroppo infatti la prevaricazione della vittima avviene anche a livello mentale e può coinvolgere non solo l’aguzzino, ma persino le persone estranee che si sentono in diritto di giudicare nonostante spesso siano poco informate sulla vicenda.
Questo fenomeno è noto come victim blaming e consiste nel colpevolizzare la vittima di violenza, portandola simbolicamente sul banco degli imputati: quindi non è più il responsabile delle violenze a essere biasimato, ma chi ha subito i soprusi. Avviene così un vergognoso e ingiusto capovolgimento delle parti. La vittima diventa oggetto dell’attenzione negativa: viene screditata e colpevolizzata per aver – intenzionalmente o meno – provocato l’aggressore.
Spesso non è solo la sua versione dei fatti ad essere messa in dubbio, ma si verifica un processo ancora più subdolo. In molti casi di violenza, la vittima viene a più riprese sommersa di domande sul proprio abbigliamento, sull’assunzione di bevande alcoliche o di sostanze stupefacenti e sul comportamento verso le altre persone.
Il risultato? Si accusa chi ha subito i soprusi anziché il carnefice, contribuendo così al fenomeno della vittimizzazione secondaria.
Cosa si intende per vittimizzazione secondaria?
Dopo gli abusi è la macabra attenzione dei media e dell’opinione pubblica a causare un secondo trauma, altrettanto intenso. Quando ciò avviene si parla di vittimizzazione secondaria, ovvero rendere la donna nuovamente vittima, stavolta non solo del proprio aggressore, ma di tutta la platea che osserva, segue e commenta l’accaduto.
La vittimizzazione secondaria può avere diverse forme ed è perciò difficile riuscire sempre a riconoscerla, soprattutto all’interno di una società ancora troppo poco informata su queste tematiche.
Perciò è fondamentale iniziare dei percorsi di presa di coscienza critica per far emergere la vera natura delle domande mal formulate dai giornalisti e dalle forze dell’ordine a chi subisce una violenza.
Riconoscere questo ulteriore sopruso e le sue declinazioni è essenziale per diventare consapevoli del victim blaming: oltre agli atti fisici coercitivi, devono essere considerate forme di violenza anche tutte quelle esercitate psicologicamente e, tra queste, trova posto la vittimizzazione secondaria.
Anche in queste circostanze è importante rivolgersi ai Centri Antiviolenza raggiungibili tramite il numero verde 1522, attivo 24 ore su 24 su tutto il territorio nazionale.
Quando l’aggressore è di famiglia: victim blaming e violenza domestica
Se ci conforta l’idea che l’ambiente familiare sia un luogo sicuro per ogni individuo, i dati dimostrano l’opposto, rivelando che molte volte l’aggressore agisce tra le mura domestiche.
Secondo l’ultimo studio Istat, ora in corso di aggiornamento, il 62,7% degli stupri rilevati è commesso dal partner, attuale o precedente. Ciò significa che sei vittime di violenza su dieci vivono o hanno vissuto con il proprio carnefice. E non finisce qui: proprio in famiglia avvengono ripetutamente i cosiddetti reati da Codice rosso, cioè le violenze di gravità maggiore, quali la violenza sessuale, il Revenge Porn e gli atti sessuali nei confronti di minorenni.
Questi sono i casi che vengono denunciati più difficilmente, complice il fatto che la società patriarcale vuole che le questioni familiari siano risolte solo all’interno dell’ambiente domestico. Così anche nelle rare volte in cui la vittima trova la forza di riportare le violenze subite, il victim blaming si scatena, vanificando la coraggiosa e doverosa richiesta di aiuto.
Spesso di fronte al marito che picchia la moglie, molte persone si domandano: “Ma perché non l’ha lasciato, perché non è andata via?”. In questo modo, però, si sposta la responsabilità da chi ha compiuto l’atto criminale a chi ha subito le angherie. Di fatto, questa è un’ingiustizia crudele e gratuita che deve essere fermata: dobbiamo supportare le donne vittime di violenza e ricordare l’importanza di rivolgersi al numero 1522 per richiedere aiuto. Solo così potremo salvare delle vite ed evitare di essere noi stessi i nuovi carnefici.
Ci si può inoltre rivolgere al Telefono Rosa (06 3751 8282), un vero punto di riferimento per chi è in difficoltà: tantissimi i servizi offerti, dall’ascolto alla consulenza e assistenza legale, dalla consulenza psicologica ai gruppo di auto-aiuto.
Ecco allora la rinnovata necessità di fare fronte comune, per assicurare solidarietà alle donne vittime di violenza e riportare le scabrose domande a quella che dovrebbe essere la loro corretta formulazione.